27 Febbraio 2020

Coronavirus, i bambini ci ascoltano

Non sono antenne sempre spente che si riaccendono a comando di noi adulti. Sono esseri intelligenti che sentono le nostre ansie e paure

di DOMENICO BARRILA’* 26 febbraio 2020

In queste giornate in cui ognuno di noi, sta mostrando di che pasta è fatto, ci stiamo esercitando nella rincorsa al modo migliore per dirlo ai bambini, come se loro fossero antenne sempre spente che si riaccendono a comando di noi adulti. Dietro queste pretese, c’è la sottile convinzione che i bambini sarebbero sensibili alle parole e non ai “climi” che si creano intorno a loro e che comunque il loro livello di comprensione è proporzionale all’età, dunque un bambino di cinque anni capisce all’incirca un decimo di quello che comprende un cinquantenne. Naturalmente è una semplificazione, almeno per gli aspetti quantitativi non certo per il principio.
Da qui la corsa a spiegare loro, a modo nostro naturalmente, il caos che stanno registrando intorno ad essi, un’esplosione di irrazionalità promossa dagli stessi adulti che vorrebbero spiegare ai piccoli che non
c’è da preoccuparsi, magari dopo giornate di discussioni apocalittiche in presenza degli stessi bambini. Non esiste una tecnica infallibile per spiegare ai piccoli cosa succede nel mondo circostante, perché è il nostro comportamento che trasmette loro il pensiero dei grandi, la certezza di come stanno le cose. Una madre, adulta e razionale, trasferisce al proprio bambino sentimenti corrispondenti, viceversa una persona impulsiva e preda di ogni paura può anche risparmiarsi la fatica di parlare al bambino, non ce n’è bisogno.
Ieri sono andato per curiosità in un centro commerciale, due mamme con relativi bambini stavano saccheggiando tutti gli scaffali dello scatolame. Mi pare non ci sia altro da aggiungere. È evidente che noi consideriamo i bambini alla stregua di creature disposte a mandare giù di tutto in modo acritico, ma soprattutto non consideriamo che la nostra ambiguità li riempie di angoscia, anche quando siamo animati da buonissime intenzioni.
Una bambina di 2 anni e mezzo anni aveva perso la mamma qualche mese prima, un cancro del sistema linfatico. Il padre, giustamente in grave difficoltà, voleva sapere come dirlo alla propria figlioletta. Gli venne consigliato di dire che la madre era su quella tale stella e che prima o poi sarebbe tornerà. La bambina manifestava crisi di pianto, veri e propri attacchi di ansia uniti a forti stati di malinconia. Ovviamente non siamo certi di quello che stava accadendo nella testa di quella piccola, ma possiamo tentare di articolare una finzione, perché è questo ciò che può concedersi la psicologia, delle finzioni. Meglio se bene approssimate.
Ora proviamo a metterci nei panni di quella creatura e immaginiamo come ci sentiremmo se qualcuno ci dicesse che la persona che amavamo sopra ogni altra e su cui contavamo di più si è dileguata senza una ragione plausibile, abbandonandoci. Dunque, il danno di averla persa e la beffa di sentire che il nostro valore è prossimo alla zero, dal momento che se n’è andata “malgrado noi”, anzi forse per colpa nostra. A questo aggiungiamo qualche ingrediente probabilistico, ossia “prima o poi tornerà”, come il più
strafottente dei Pinkerton che lascia Butterfly in balia di un’attesa perenne.
Cosa dovrei dire a mia figlia. Mi chiese il padre. La verità, gli rispondo, le racconti esattamente come sono andate le cose, che nessuno è scappato ma che, sebbene accada molto di rado, le mamme si possono ammalare e morire, ma che continuano ad amarci ogni giorno e noi possiamo, anzi dobbiamo fare lo stesso. Consigliai al papà di portarla al cimitero, di mostrarle il loculo della madre, di dirle che potevamo provare a parlare con lei, farle sapere che gli mancava, raccontarle come stavano andando le loro vite, quello che stavamo facendo di bello. Che potevano sperare la mamma sentisse.
Sarà stato un caso, la situazione migliorò molto rapidamente. Era bastato dire la verità. La certezza di sapere che la madre non se n’era andata a bighellonare da una stellina all’altra, le aveva almeno cancellato il timore più grande, non avere contato niente per la madre.
Ecco, di questo sono assetati i bambini, di verità, di franchezza, anche perché prima o poi “capiranno”. Ovviamente non sempre si può dire tutto, ma mostrarsi disponibile a parlare con franchezza di ogni cosa li libera dall’ansia che possa esservi un piano nascosto, oscuro, terribile, al quale sono troppo stupidi per avere accesso.
Il coronavirus, trasformato in un mostro a sette teste dall’ignoranza degli adulti e, talvolta, dalla superficialità di chi deve raccontare gli eventi, rischia di mostrare quanto siamo indietro nei confronti dei bambini, che vedono, sanno e qualche volta si prendono gioco di noi. Una trentina di anni fa mi sono recato insieme a uno dei miei figli a visitare un grosso allevamento di maiali, mi interessava capire come si comportavano questi animali in gruppo.
Uno dei custodi, preso dallo zelo, stava cercando di spiegare a mio figlio, come avveniva il processo di riproduzione. Dopo un quarto d’ora eravamo
ancora in alto mare, il pover’uomo si stava incartando in un ragionamento perimetrale, con qualche imbarazzo, senza arrivare al dunque. Fu mio figlio, che allora era in prima elementare, a levarlo d’impaccio. “Papà, ma questa è la fecondazione artificiale”. Una donna di 40 anni, dalla professione attualissima, biologa, mi racconta di quando aveva tre anni. “Mio papà era morto in un incidente d’auto, molto cruento. Ero seduta per terra con le mie bambole, mentre la mamma raccontava alle persone che venivano a porgerle le condoglianze tutti i particolari macabri dello scontro. Una donna fece segno a mia madre di parlare piano perché c’ero io ad ascoltare. La mamma rispose che ero troppo piccola per capire, ma l’incidente di papà per me è sempre stato lo specchio di quei racconti, così terribili”.
L’epidemia in corso ci potrebbe aiutare a guardare da vicino dove di solito passiamo distrattamente, riportando i bambini nella loro posizione naturale, quella che spetta ad una grande “civiltà” che conserva intatti i codici che noi adulti purtroppo abbiamo perso e non siamo più in grado di ritrovare. Salvo volerli spiegare a chi li possiede.

* Psicoterapeuta e autore del libro: “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi” e “Tutti bulli”

 

Ultimo aggiornamento: 27 Febbraio 2020

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